Un viaggio in Indonesia è sempre memorabile: impossibile non restare affascinati dalla natura lussureggiante delle sue isole. Ma per quanto tempo ancora potremo goderci lo spettacolo dei suoi variegati paesaggi e della ricchezza di piante ed animali che li popolano?

Le azioni dell’uomo stanno mettendo in serio rischio la biodiversità dell’Indonesia. La vittima che è divenuta simbolo di questa drammatica situazione ambientale è l’orango del Borneo Indonesiano, un animale meraviglioso che ci assomiglia in maniera impressionante e che riveste un ruolo chiave all’interno degli equilibri delle foreste.

Il nostro amore per la natura, che ispira tutti i nostri viaggi, e per l’Indonesia, una delle destinazioni a noi tanto care, ci ha portate a volerne sapere di più. Trovare informazioni attendibili su questi argomenti non è sempre facile per chi non è un professionista del settore, dunque perché non chiedere direttamente a un professionista?

Così abbiamo fatto. Abbiamo intervistato Alessandro Nicoletti, un appassionato biologo marino che ha fatto della conservazione e della divulgazione scientifica la sua missione di vita. Alessandro ha viaggiato due volte in Indonesia e da questi viaggi è nato un interessante progetto per la salvaguardia degli oranghi. A lui la parola!

Ciao Alessandro, raccontaci un po’ di te. Chi sei e da quanto tempo ti occupi di conservazione ambientale?

Ciao, sono Alessandro Nicoletti. Sono originario di Jesi, mi sono laureato in Biologia Marina all’Università Politecnica delle Marche e dal 2017 mi occupo di divulgazione.

alessandro nicoletti

Da dove nasce il tuo amore per la natura? Perché tra tanti possibili ambiti di studi hai scelto la biologia marina?

La passione per la natura, la conservazione e l’ecologia nasce tra i banchi di scuola superiore. Ho studiato elettronica e non mi riconoscevo in quel percorso di studi. Una mia amica mi disse che si sarebbe iscritta a Biologia all’Università di Ancona e quella mi sembrò una cosa molto interessante. Mi informai e in pochissimo tempo presi la mia decisione.

Al corso di studi in Biologia Marina si studiano le basi scientifiche della conservazione ambientale, non solo in ambito marino.

Quand’è avvenuto il tuo primo contatto con la natura selvaggia?

Dopo la laurea e un primo periodo di lavoro in Inghilterra ho deciso di rispondere alla chiamata che avevo fin da adolescente: andare in Australia. Qui ho lavorato in diversi settori ma l’esperienza formativa per me più importante è stata in una comunità remota di aborigeni australiani. Qui è avvenuto il mio incontro con la natura selvaggia: l’outback australiano è un luogo dove la natura regna sull’uomo, l’uomo è soltanto un ospite.

Quando hai visitato l’Indonesia per la prima volta?

Il mio primo viaggio in Indonesia risale al 2012. Finita l’esperienza australiana sono andato a fare un viaggio nel sud-est asiatico e tra i paesi visitati l’Indonesia è stato quello che mi ha colpito di più.

Durante il mio viaggio in Indonesia ho visitato Bukit Lawang, un paesino nelle foreste nel nord di Sumatra da cui partono vari trekking per visitare le aree più remote dell’isola dove vivono gli ultimi orango. Lì in un centro informativo per turisti sono venuto a conoscenza della drammatica situazione che gli orango devono vivere per colpa delle attività umane. Si stima che rispetto al numero di orangutan del Borneo presentI nel 1900, ad oggi sia rimasto vivo solo un 14%.

Quali attività sono all’origine di questa situazione?

La causa principale è la continua espansione della coltivazione di palma da olio e la consequente deforestazione. L’olio di palma è presente in tantissimi prodotti di uso quotidiano, non solo alimentari ma anche in prodotti ai quali normalmente non si pensa come cosmetici e biocarburanti. Nei paesi di produzione viene usato come olio da cucina, diciamo che è l’equivalente del nostro olio d’oliva: se il consumo ancora oggi si limitasse a questo la situazione non sarebbe così drammatica. È il continuo incremento di utilizzo in tutto il mondo ad aver fatto sì che le popolazioni di orango vedano il loro habitat distrutto.

Quando ho visitato il centro in Indonesia sono rimasto profondamente colpito. Mi sono chiesto come sia possibile devastare in maniera così cieca specie simili a noi che vivono sul nostro pianeta da milioni di anni. Gli orango sono animali incredibili e sono tra i più vicini a noi esseri umani. Non a caso condividiamo il 97% del nostro DNA con queste specie. Da lì è nato in me il desiderio di divulgare, mi sono sentito quasi in obbligo di raccontare cosa succede in luoghi sconosciute al grande pubblico.

Come hai concretizzato questo tuo desiderio?

Come spesso accade, quando il seme di un’idea si innesca nella mente di una persona non germoglia subito. Ho impiegato ben 4 anni da quel primo contatto con la realtà dei problemi ambientali per iniziare a fare qualcosa di concreto nella divulgazione. La vita mi ha portato a dover lavorare, a fare cose scollegate dalla conservazione, quindi per qualche anno ho dovuto mettere in pausa la voglia di divulgare. Ma questo seme era lì, nasceva e cresceva dentro di me, alimentato da un malessere personale. Sentivo che nella mia vita c’era qualcosa che mancava, e la cosa che mancava era la divulgazione scientifica.

Nel 2017 ho messo assieme la formazione in biologia marina, la passione per la divulgazione e le competenze di online marketing e blogging acquisite con i miei lavori e ho dato vita a Keep the Planet, un’associazione di promozione sociale che ha come scopo principale la divulgazione scientifica attraverso la creazione di contenuti scritti e video.

Il progetto più importante che sto portando avanti con l’associazione è il film documentario Men of the Forest.

Parlaci di questo documentario. Da dove nasce l’idea?

Nel 2017 sono tornato in Indonesia e ho conosciuto una piccola associazione ecologista indonesiana che è diventata la base logistica del progetto. Il film racconta la storia di un gruppo di giovani ambientalisti indonesiani che hanno deciso di impegnarsi attivamente nella difesa del territorio del Borneo, l’isola che ospita la maggior parte degli orango ancora in vita.

Questo film è nato da un’idea con il mio collega Francesco Menghini, documentarista e filmaker professionista.

A che punto è la lavorazione del documentario?

La prima parte è stata girata nel 2017. Abbiamo fatto un viaggio dalla città di Kuching nella regione di Sarawak viaggiando via terra e via fiume fino a raggiungere il Kalimatan Occidentale e il Kalimatan Orientale. Qui abbiamo avuto la fortuna di conoscere gli ambientalisti indonesiani protagonisti del film.

Dovevamo tornare a mazo 2020 per concludere le riprese ma ovviamente non è stato possibile a causa della pandemia. Al momento attendiamo che l’Indonesia riapra con sicurezza ai viaggiatori stranieri.

Che obiettivo ti poni con questo film?

L’obiettivo del film è condividere un messaggio: le nostre azioni che all’apparenza sembrano innocue, come consumare un prodotto contenente olio di palma, celano un massacro di biodiversità. Tieni presente che l’orango è la specie più in vista ed è diventato una sorta di animale simbolo, ma perdendo la foresta primaria tropicale del Borneo perdiamo decine di migliaia di specie vegetali ed animali.

Nel compromettere l’ecosistema generale stiamo generando un cambiamento di ecosistema. Ai più è noto come cambiamento climatico, ma è una trasformazione più ampia. Per la Terra in sé non è un problema, siamo noi umani che forse non riusciremo ad adattarci ad un pianeta che cambia.

Un altro aspetto non visibile delle nostre azioni apparentemente innocue è la perdita di diritti civili di persone che lavorano nell’industria dell’olio da palma: parliamo di persone che spesso lavorano in condizioni di sfruttamento.

Nei tuoi intenti Men of the Forest vuole essere un film di denuncia o di educazione ambientale?

Men of the Forest sarà un film incentrato sulla bellezza della natura e sullo sforzo dei ragazzi indonesiani che hanno deciso di investire la loro intera vita nella protezione dell’ambiente.

Non è pensato e non vuole essere un film di denuncia contro i “cattivi”, per vari motivi. Uno è la nostra sicurezza: non abbiamo una casa di produzione alle spalle e quindi non possiamo correre rischi inutili. Il motivo principale però è proprio il nostro desiderio di voler mostrare e raccontare la bellezza dell’Indonesia per animare quante più persone possibili a cambiare le proprie abitudini. È un film di amore per la natura visto attraverso gli occhi di persone umili ma determinate.

Più che portare il film ai festival cinematografici ci interessa farlo vedere nelle scuole medie e superiori e nelle università. Vogliamo far vedere ai giovani che vivere lavorando nella conservazione è possibile. È un seme che può dare buoni frutti: le nuove generazioni sono nettamente migliori di quelle passate perché sono consapevoli già dalla tenera età che noi siamo parte della natura e non siamo contro la natura.

Com’è stato finanziato Men of the Forest?

Il documentario è stato interamente finanziato in maniera indipendente con fondi personali miei e del mio collega e con una piccola campagna crowdfunding. La somma raccolta con questa campagna verrà utilizzata per la seconda parte delle riprese. Alcune spese relative al marketing e alla grafica siamo riusciti a tagliarle perché avevamo le competenze per fare tante cose da soli.

È ancora possibile partecipare alla campagna?

La campagna è conclusa. È possibile sostenere le attività di Keep the Planet, e quindi anche finanziare il documentario, iscrivendosi all’associazione.

I soci ricevono un database con oltre 100 associazioni locali in tutto il mondo impegnate in progetti di conservazione. Sono piccole realtà che hanno un estremo bisogno di volontari. In molte situazioni, come nel caso del Borneo, il progetto che si crea intorno alla presenza dei volontari internazionali è l’ultimo baluardo contro la devastazione ambientale. Le persone che vivono sul territorio hanno bisogno di entrate economiche e le attività legate al volontariato ambientale possono diventare l’alternativa alla distruzione.

Nel caso del Borneo i fondi raccolti grazie ai progetti di volontariato ambientale hanno permesso di acquisire alcune zone di terreno circostanti il parco nazionale Tanjung Puting. Queste aree ora sono foresta protetta perché di proprietà dI un’associazione. Se non fossero state acquistate dall’associazione sarebbero diventate l’ennesima piantagione di palma da olio che poi viene abbandonata.

Puoi spiegarci meglio qual è il problema ecologico dell’olio di palma?

L’olio di palma deriva da una palma originaria dell’Africa che è stata importata in Asia dai coloni europei alcuni secoli fa. In Malesia e in Indonesia si è espansa notevolmente perché ha trovato condizioni climatiche ideali.

La coltivazione di palma di olio è la più produttiva al mondo, quindi a livello teorico ha senso coltivare questa pianta. Il problema è che dopo 25 anni dalla piantumazione la pianta diventa troppo alta e troppo grande per essere lavorata manualmente, quindi la piantagione viene abbandonata.

Quando dici che viene abbandona intendi che non è più recuperabile? Quindi cosa accade a quel terreno?

Sarebbe recuperabile a fronte di notevoli investimenti che le multinazionali non sono disposte a fare. Preferiscono andare in un’altra zona forestale e creare una nuova piantagione. Per fare questo gli alberi della foresta vengono tagliati e gli animali vengono catturati, spesso per essere venduti di frode. Considera che c’è un mercato illegale di tantissime specie in vie di estinzione.

In sintesi, per la multinazionale, che non reinveste mai sul territorio ma porta i profitti altrove, è più conveniente spostare continuamente le piantagioni, piantagioni che poi vengono abbandonate a se stesse.

Un altro problema della coltivazione di palma da olio è il fatto che la pianta richiede molta acqua e molte sostanze nutritive. Il terreno del Borneo è organicamente ricco di entrambe ed ha un aspetto argilloso; dopo 25 anni di coltivazione diventa terriccio sabbioso praticamente inutilizzabile. Per farlo tornare ad essere l’antica foresta c’è bisogno di un’importante lavorazione che non viene mai fatta, o quasi mai.

Per molti italiani Indonesia è sinonimo di Bali, in realtà questo paese comprende una grande varietà di paesaggi e situazioni. Qual è la tua impressione dell’Indonesia?

Per me l’Indonesia è un paese meraviglioso, probabilmente il più bello tra quelli che ho visitato. Ho viaggiato tanto e ho toccato quasi tutti i continenti, ma l’Indonesia mi è rimasta nel cuore.

L’amo in primis per i paesaggi naturalistici meravigliosi. Per qualsiasi appassionato di natura è una meta imperdibile perché è uno scrigno di biodiversità: è tra le nazioni con il più alto tasso di biodiversità al mondo. E poi mi è rimasta nel cuore per la gente, per le persone comuni che ti sorridono, ti salutano per strada. L’umanità, l’apertura, il senso di tranquillità e sicurezza che si respira… questo è ciò che amo dell’Indonesia.

Nelle tre località turistiche di Bali, Ubud, Kuta e Canggu si respira un’aria diversa, direi che non è vera Indonesia perché ci sono più turisti internazionali che balinesi. Bali di per sé è una realtà specifica per motivi religiosi (qui prevale l’induismo mentre nelle altre isole le religioni predominante sono quella musulmana e cattolica), quindi chi visita Bali visita un luogo unico in tutto l’arcipelago indonesiano.

Le differenze ci sono e si notano, però la base delle persone indonesiane è la stessa. È un popolo molto accogliente, curioso, ospitale e ti rimane nel cuore. Una volta che vai in Indonesia ci vuoi ritornare. Io consiglio di visitarla a tutti.

Per visitarla tutta ci vogliono almeno sei mesi secondo me. Io ne ho visitato forse un 30%, appena sarà possibile voglio vedere anche l’altro 70%.

Vorrei concludere con una domanda più personale. La magia della natura ti rapisce ancora o prevale la parte razionale? In altre parole, volevo chiederti se quando sei immerso nella natura, magari in un bosco o in una spiaggia particolarmente bella, riesci ancora a gioire pienamente della bellezza del paesaggio o le tue conoscenze sullo stato drammatico della situazione ambientale nel nostro pianeta ti impedisce di goderne senza avere pensieri negativi?

Sicuramente più si conosce e più si studia, più aumenta la preoccupazione per la meraviglia che purtroppo stiamo perdendo. D’altra parte la bellezza della natura è la sua incredibile forza rigenerativa. I casi di ripristino ambientale sono numerosi. Se la natura viene lasciata in pace e tranquilla si rigenera molto velocemente.

Cerco sempre di non farmi sopraffare dai pensieri negativi ma di gioire della bellezza della natura. Ancora ci riesco, soprattutto quando sono da solo. Non so se è un caso, ma a volte immerso nella natura riesco a focalizzare e riconoscere subito gli animali che ci sono intorno a me . Osservandoli in silenzio si riesce a capire l’incredibile forza che la natura ha, una forza che ingloba anche noi esseri umani. Spesso ci dimentichiamo di farne parte ma invece siamo soggeti alla forza della natura.

Per poterne gioire devo sempre spingermi in zone dove l’impatto antropico non sia evidente. Lo capisco quando mi capita di visitare località turistiche dove ci sono le classiche attività di snorkelling: i turisti sono felici, io invece vedo lo stato della barriera corallina che è drammatico. Lì non riesco a gioire della bellezza della natura.

Fortunatamente alcuni angoli remoti sono rimasti e quando sono immerso in quei luoghi mi motivo a continuare il mio lavoro di divulgazione. La bellezza va raccontata e uno dei miei motti è: per proteggere bisogna prima amare, per amare bisogna prima conoscere. Ecco perché continuo il mio lavoro: voglio far conoscere a quante più persone possibili la bellezza della natura per farle poi diventare anche loro protettori.

Per saperne di più

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